Gli ammassi stellari osservati con il telescopio James Webb potrebbero essere i progenitori degli ammassi globulari che popolano le galassie odierne.

Lo studio delle galassie giovani, a poche centinaia di milioni di anni dal Big Bang, è una finestra per comprendere i processi che hanno modellato le galassie nell’universo primordiale. Galassie così distanti possono essere difficili da osservare, ma per fortuna l’universo stesso offre un assist attraverso le lenti gravitazionali: distribuzioni di materia così dense che curvano lo spaziotempo e deviano il percorso dei raggi luminosi, amplificando la luce proveniente dalle galassie più lontane. È così che si è scoperto il Cosmic Gems Arc, una giovanissima galassia che vediamo com’era appena 460 milioni di anni dopo il Big Bang. La sua forma appare distorta in forma di arco e la sua luminosità è fortemente amplificata grazie all’effetto di lente gravitazionale.

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Galassie primordiali

JADES-GS-z14
Questa immagine a infrarossi del telescopio spaziale James Webb della NASA (chiamato anche Webb o JWST) è stata scattata dalla NIRCam (Near-Infrared Camera) per il programma JWST Advanced Deep Extragalactic Survey, o JADES. I dati NIRCam sono stati utilizzati per determinare quali galassie studiare ulteriormente con osservazioni spettroscopiche. Una di queste galassie, JADES-GS-z14-0 (mostrata nel pullout), è stata determinata con uno spostamento verso il rosso di 14,32 (+0,08/-0,20), rendendola l’attuale detentore del record per la galassia più distante conosciuta. Ciò corrisponde a un tempo inferiore a 300 milioni di anni dopo il Big Bang. Credit: NASA, ESA, CSA, STScI, Brant Robertson (UC Santa Cruz), Ben Johnson (CfA), Sandro Tacchella (Cambridge), Phill Cargile (CfA)

Osservata per la prima volta dal telescopio spaziale Hubble nel 2018, si mostra in tutta la sua gloria in una nuova immagine del telescopio spaziale James Webb che rivela ben cinque ammassi stellari al suo interno. Ciascuno degli ammassi ha una dimensione di circa 3-4 anni luce: questo indica che si tratta di ammassi molto densi, mille volte di più rispetto ai tipici ammassi di stelle giovani che si possono osservare nell’universo locale. La scoperta implica che la formazione degli ammassi stellari e il feedback relativo potrebbero aver contribuito a scolpire le proprietà delle galassie durante le primissime epoche della storia cosmica.

I risultati dello studio, guidato dalla ricercatrice italiana Angela Adamo dell’Università di Stoccolma e Oskar Klein Centre, in Svezia, sono stati pubblicati oggi su Nature. «Riteniamo che queste galassie siano la fonte principale dell’intensa radiazione che ha reionizzato l’universo primordiale», commenta Adamo, prima autrice del lavoro. «La particolarità del Cosmic Gems Arc è che, grazie alla lente gravitazionale, possiamo effettivamente risolvere la galassia fino a una scala di pochi anni luce».

Le osservazioni ad altissima risoluzione realizzate dal James Webb nell’infrarosso, insieme all’ampificazione fornita dalla lente gravitazionale, hanno mostrato dettagli senza precedenti: è la prima volta che si osservano le proprietà interne di una galassia così lontana. Solo così è stato possibile dimostrare il ruolo chiave degli ammassi stellari nelle galassie primordiali, sia nel contesto della formazione degli ammassi globulari e nel processo di reionizzazione dell’idrogeno dell’universo.

«Quando vidi le immagini del Cosmic Gems Arc, la sequenza di “pallini” che replicavano in modo speculare richiamando proprio l’effetto di lente gravitazionale, rimasi sbalordito», ricorda Eros Vanzella, ricercatore dell’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) a Bologna e terzo autore dell’articolo. «Scrissi subito alla collega di Stoccolma Angela Adamo e a Larry Bradley, principal investigator delle osservazioni di Jwst: ma allora gli ammassi stellari sono il modo dominante nella formazione stellare nell’universo iniziale! Come fuochi d’artificio sconquassano la galassia ospite, la rendono un potenziale ionizzatore, per poi proseguire come ammassi globulari».

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Ammassi stellari e globulari

Ammasso stellare
A destra, un’immagine dell’ammasso di galassie SPT-CL J0615−5746. A sinistra, lo zoom mostra due galassie di sfondo, molto più lontane rispetto alle galassie dell’ammasso, le cui immagini sono state distorte e amplificate dall’effetto di lente gravitazionale dell’ammasso stesso. La galassia Cosmic Gems Arc è la lunga striscia elongata al centro, all’interno della quale si possono riconoscere una serie di puntini luminosi: si tratta di ammassi stellari, progenitori degli odierni ammassi globulari. Credits: ESA/WEBB, NASA & CSA, L. Bradley (Stsci), A. Adamo (Stockholm University) and the Cosmic Spring collaboration

La presenza di ammassi stellari così densi e massicci è rilevante per due aspetti. Innanzitutto, sono i precursori degli ammassi globulari che vediamo oggi, i quali sono quasi tanto antichi quanto l’universo. Inoltre, ammassi stellari così giovani, durante la loro formazione, possono “distruggere” il mezzo interstellare della galassia ospite e, con le loro stelle giovani e massicce, giocare un ruolo chiave nel processo di reionizzazione dell’universo. È probabile che le galassie in formazione nell’universo primordiale ospitino normalmente oggetti di questo tipo.

«Il messaggio generale, a mio parere, è che stiamo finalmente “smascherando” le origini delle prime galassie con la qualità e potenza del telescopio James Webb e, grazie al lensing gravitazionale, stiamo vedendo dettagli senza precedenti», aggiunge Vanzella. «L’universo a quell’epoca non era come quello odierno e questo ci appare adesso come un dato di fatto».

Nel frattempo, il team si sta preparando per ulteriori osservazioni con il James Webb, in programma per l’inizio del 2025; il principal investigator è lo stesso Vanzella, che conclude: «Nel prossimo ciclo, studieremo il Cosmic Gems arc con due strumenti, NirSpec e Miri: così avremo la conferma del redshift della galassia e, tramite misure con spettroscopia integrata, andremo più a fondo riguardo le proprietà fisiche degli ammassi stellari trovati, del gas ionizzato, oltre a eseguire una mappa bidimensionale del tasso di formazione stellare sull’intero arco gravitazionale».

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Fonte: Comunicato Stampa INAF, Nature